Fuori città, dove una volta c’erano gli appestati, e infatti la strada si chiama via Stazione Isolamento, brulica la bottega del compianto Francesco Navanzino. “Una volta i ceramisti di Caltagirone”, raccontano Antonio e Luigi, i figli che ne hanno raccolto l’eredità, “prendevano l’argilla qui intorno. Poi col vincolo paesaggistico degli anni ’50 è finito tutto. Adesso l’argilla arriva dalla Sila, dalla Toscana”. Luigi lavora al tornio con abilità. Gira la creta e le dita danno forma alla materia. Il fratello Antonio lavora al piano superiore. Fa scivolare il pennello su piccole teste di mori, i dominatori di un tempo. Ma come? I nemici si idealizzano invece di maledirli? “Succede”, dicono, “quando la dominazione si traveste da convivenza”. La bottega è piena di gesti antichi. Ogni tanto arriva un buon caffè. Mentre sorseggia, Antonio spiega che la ceramica del nord Italia risente dell’influsso raffaellesco. “È perfetta perché il rinascimento che ha accolto è bellezza assoluta. Qui a Caltagirone invece, la nostra pennellata è l’action panting alla Pollock”. Un “getto” d’istinto senza guardare il risultato. “Per noi non conta la qualità ma l’insieme”. Nella bottega ci sono anche i personaggi presi a prestito dalla favola di Pinocchio: il testone del gatto, della volpe, il carabiniere. Tanto grandi che si fa fatica ad abbracciarli. Figure evanescenti, irreali. “Per ottenere questo effetto do la pennellata e poi intervengo. Porto gli smalti a temperature superiori al normale così non “legano” e cola tutto”. È come se piovesse sull’argilla un velo di colori indistinti. “Abbiamo il carattere estemporaneo degli oggetti che creiamo”, dice alzando gli occhi dal caffè. “Non ci interessa la perfezione delle forme ma l’imperfezione dei colori. Quello che vediamo tutti i giorni nei nostri cieli, nel nostro mare”.
Caltagirone, ceramiche Navanzino
Testo e foto di Paolo Simoncelli
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