Paolo Popia è il visionario del Palazzo dei Poeti. L’ha concepito quando alla Rabatana non c’era nulla. “Un luogo non luogo”, dice. “Il rifugio di chi sa ascoltare la voce delle pietre”. Vent’anni fa se ne stava tranquillo, a Firenze. “Lavoravo pochissimo. Guadagnavo tantissimo. Ma sono tornato. Volevo portare avanti il sogno di mio padre”. Morto alcuni anni fa, papà Antonio era un poeta, un po’ Albino Pierro anche lui. È per il padre che Paolo è rimasto alla Rabatana. Per riportare la vita nella desolazione. All’inizio il palazzo era un rudere. Niente tetto, solai distrutti. Ci voleva una bella fantasia per immaginare un eremo benedetto dalle nuvole, cullato da poetiche rime. Nella sala ristorante del Palazzo dei Poeti, oggi Paolo manda ogni volta in scena una sorta di rappresentazione. Il tavolo come simposio greco. Prima arrivano i piatti antichi rivisitati dalla compagna Irene, un viaggio tra sapori e profumi perduti. La pasta con la mollica fritta per esempio, i frizzuli, che quando c’era la miseria si metteva al posto del formaggio. “È dal sacrificio”, racconta, “che venivano fuori ricette come queste”. Saziato il corpo, Paolo nutre l’anima. Quando cade l’ultima forchetta, inizia a declamare poesie pierrane. ‘A Ravatène, oppure Pare che tu voglia. È quest’ultima la lirica in cui Pierro fa una metafora della donna, paragonandola al vino che sgorga dalla botte spaccata. L’innamorato non vuole perdersi nemmeno una goccia. E affoga. Paolo ha ragione. Il turista qui non deve venire. Servono visionari in cerca di voci, di profumi. La memoria. Le cose che non si vedono.
Palazzo dei Poeti, Paolo Popia
Testo e foto di Paolo Simoncelli
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