Anche a Montecarotto il 6 gennaio arriva la Befana ma la Pasquella, l’antico rito legato ai canti di questua del solstizio d’inverno, infiamma l’aria più della scopa della vecchina. Bisogna risalire alle radici precristiane, ai riti di fertilità. È così, da quarant’anni, che la vecchia tradizione, alimentata dal propellente della Macina, gruppo di ricerca etnomusicale di Gastone Pietrucci, prende vigore. I suonatori armati di fisarmonica, timpani, cembali e chitarre, insieme ai cantori dal vocione tenorile, molti coi grandi cappelli, fazzoletto e cappottoni, si esibiscono in piazza, in modo libero, estemporaneo, all’ombra del grande albero di Natale che sta per smobilitare, poi sciamano come piccole corti dei miracoli per strade, vicoli e piazzette. La pacifica invasione rinsalda le radici, rafforza la cultura popolare. In un mondo sempre più falso e artificiale, tocca il cuore. Tutto dal vivo, in allegria. Le voci sono calde. Niente contaminazioni. E niente stage, palchi o palchetti perché il pubblico deve toccare con mano cantori e strumenti musicali. In cambio di un piccolo obolo, un dolcetto e un bicchier di vino, i “pasquellanti”, arrivano da ogni angolo delle Marche, vanno di casa in casa per propiziare con le loro sanguigne ballate, salute e buona sorte. Si esibiscono anche nel teatro comunale poi vanno in campagna inondando di stornelli e canti propiziatori, molti in dialetto stretto, casali e fattorie. È il giorno in cui aleggia sui tetti di Montecarotto il messaggio della Pasquella: il senso della comunità, lo spirito dell’accoglienza.
Montecarotto, i pasqualotti e i canti propiziatori
Testo e foto di Paolo Simoncelli
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