Museo Tripisciano, il Michelangelo nisseno


Testo e foto di Paolo Simoncelli

C’era una volta, a Caltanissetta, la bottega di Ferdinando Tripisciano, il vasaio che con la creta faceva mattoni, tegole, otri, oggetti d’uso quotidiano. Ogni tanto arrivava il figlio, il piccolo Michele nato nel 1860 nella casa di vicolo Marrocco. Già a sei anni, dopo due vissuti nella cecità, realizzava bellissime statuine da presepe. “Smettila”, diceva il babbo, “l’argilla costa. Serve a me”. E per riprendersi la materia, distruggeva quel che aveva modellato il figlio. Aveva l’arte nel sangue Michelino ma ci volle il barone Lanzirotti, imprenditore e mecenate, per capire che era nato uno degli scultori più significativi del Novecento. Lo mandò a studiare a Roma, a sue spese. Prima al Collegio di San Michele alla Ripa, dove imparò a disegnare, modellare, dipingere, scolpire poi nello studio dello scultore Francesco Altini. Il giovane possedeva già una tale autonomia artistica che s’incamminò presto lungo la via della fama: diverse opere del maestro si trovano a Roma e nel mondo. La mostra permanente a lui dedicata nei saloni di Palazzo Moncada, è un viaggio nella vita e nell’arte del Michelangelo nisseno. Raccoglie i bozzetti, le opere in gesso, marmo e bronzo, una settantina, che l’artista donò a Caltanissetta, città alla quale fu legato da legame vivo e profondo. Sono diversi i capolavori esposti nei quattro saloni. Ci sono il ragazzo morso dal granchio, opera giovanile in gesso, il sigillo della sua attività scultorea, sospesa tra verismo e neoclassicismo, l’orfana in marmo, una delle quattro Madonne in Trono (una sta a Milano, un’altra a Notre Dame), l’Angelo con la Croce, la Pietà coi volti sofferenti del Cristo Morto e di Maria, il bozzetto del monumento a Gioacchino Belli a Trastevere, l’Orfeo Morente tra le onde, capolavoro in marmo dal realismo sconvolgente. Nonostante le ripetute richieste, il maestro non volle mai separarsi dall’opera.



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