Il castello di Rocca Calascio s’intravede da lontano. Una specie di molare solitario arroccato sul filo del monte, più distante, ai suoi piedi, collegati da una stradina in bilico sull’abisso, il grumo di case dell’omonimo borghetto. Che regno è mai questo? In quale epoca è sprofondata la macchina del tempo? Il formidabile maniero, tra i più alti d’Italia, il più bello del mondo per fascino e scenografia, mostra pianta quadrata, maschio centrale, il nucleo originario, il più antico, cui si sono aggiunti alla fine del quattrocento le torri angolari e la cerchia muraria. Assedi e crolli hanno eroso nei secoli il formidabile manufatto trasformandolo nella magnetica bolla spazio-temporale dove ci si può rifugiare in fuga dai mali del mondo. Quassù uno può immaginare tutto e il contrario di tutto. E assaporare qualcosa che s’avvicina alla felicità. Tutto intorno, frammenti di mura, resti di postazioni, camminamenti. Lo sguardo scivola lontano, sugli orizzonti sconfinati: la valle del Tirino, l’altipiano di Navelli, la Maiella, il Gran Sasso, il Sirente. Nessun rumore artificiale. Ogni tanto arrivano lontani belati, persino il brucare delle mucche a Campo Imperatore, se si tende l’orecchio. Spazi infiniti che continuano ad evocare mistero, magia. E infatti la rocca ha fatto da sfondo ad una delle più straordinarie, commoventi favole cinematografiche, Ladyhawke. Doveva essere uno spettacolo biblico vegliare da quassù il tratturo Magno, da L’Aquila a Foggia, dove transitavano le greggi transumanti. Arrivate di mattina prestissimo, all’ora in cui i primi raggi di sole si posano sulle pietre. Evitata la folla del giorno, avrete il millenario castello tutto per voi. Sarà tale la suggestione da immaginare i sistemi di comunicazione delle antiche fortezze medievali. Di giorno i castellani regolavano gli specchi per riflettere i raggi del sole, di notte accendevano i fuochi per illuminare le notte più buie. Viaggiavano così le notizie, ai tempi di Ladyhawke.