Nel gennaio del 1821, sentendo approssimarsi la fine, il poeta inglese John Keats, ammalato di tisi, mandò l’amico-pittore Joseph Severn nel vecchio cimitero di Roma, accanto alla piramide Cestia, perché cercasse un angolo di pace adatto al riposo eterno. Quando l’amico gli parlò di un prato dove crescevano margherite bianche, violette azzurre e anemoni, il giovane, appena ventiseienne, si rallegrò. “Mi pare già di sentire i fiori crescermi addosso”. Chi visita la sua tomba, può leggere una delle iscrizioni più delicate che si conoscano. “Qui giace un uomo il cui nome è scritto nell’acqua”. A distanza di due secoli, il luogo conserva intatto il fascino antico. “La città dei morti nella città dei vivi”, scrisse Oscar Wilde, “sembra essere il luogo più sacro al mondo”. Ancora oggi il camposanto dai mille nomi, “acattolico”, “degli inglesi”, “degli artisti e dei poeti”, “dei protestanti”, dove riposano più di 4000 defunti, è uno degli angoli più suggestivi della capitale. Pare che il primo “cliente” a varcare l’entrata dove campeggia la scritta Resurrecturis, sia stato George Werpup, nobile tedesco morto nel 1765 cadendo da una carrozza sulla Flaminia. Seguirono uomini più o meno illustri, d’ogni nazionalità, accomunati dal desiderio del sonno eterno in un cimitero che non emanava il senso della morte ma un sentimento di speranza e pace universale. “Pensando di poter essere sepolti in un luogo così dolce, ci si potrebbe innamorare della morte, scrisse il poeta Shelley, morto a 30 anni nel Golfo di Savona e inumato qui, sotto una lastra tombale su cui sono incisi i tre versi del canto di Ariel, lo spirito dell’aria della Tempesta di Shakespeare. Non ci sono solo morti però, ma anche una colonia di gatti. I silenziosi guardiani vagano tra croci e lapidi, accanto alle macchie gialle del tarassaco. Rincorrono gli insetti d’estate. Stanno sotto i monumenti funerari d’inverno. Si possono imparare le più delicate storie di vita leggendo gli epitaffi. Si scoprirà che al Cimitero Acattolico riposano August, l’unico figlio di Goethe, la cui lapide è stata realizzata dallo scultore danese Thorvaldsen, Dario Bellezza, Johann Samuel Bach, nipote di Johann Sebastian Bach, il poeta statunitense Gregory Corso, il principe russo Felix Jusupov, padre dell’uccisore di Rasputin, Antonio Gramsci, lo svedese David Åkerblad, pioniere dell’egittologia, il figlio di Wilhelm Von Humboldt. Lo scultore-poeta americano William Wetmore Story e la moglie Emelyn invece, riposano insieme al figlioletto di sei anni sotto le grandi ali bianche dell’Angelo del Dolore. La struggente scultura realizzata da Story nel 1894 trasuda un tale strazio che non riesce a spiccare il volo.
Roma, i gatti tra le lapidi
Testo e foto di Paolo Simoncelli
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