Rocca Grimalda, Lachera


Testo e foto di Paolo Simoncelli

Il sabato della festa il corteo della lachera migra verso le cascine di campagna. È il rito della questua, l’offerta di cibo e vino che va al ritmo di chitarre, fisarmoniche e violini. Si balla nelle aie e nelle stradine di Rocca Grimalda, fino all’incendio del Carvà, il pupazzo imbottito di paglia. La lachera è il ballo principale, poi ci sono la giga, la danza di corteggiamento, il calisun, la curenta dir butei e la monferrina, il ballo di campagnoli e carrettieri. Nel corteo ci sono la sposa, lo sposo, gli zuavi in uniforme militare, coi cappelli di fiori e la spada, i lacchè vestiti di bianco, dai cappelli infiorati, scialle e nastri variopinti, i trapulin, arlecchini vestiti di triangoli colorati, sonagli, cappello di fiori, fruste (scuriass) e la maschera coi baffi per incutere saggezza dato che sono i custodi della festa. Poi ci sono le campagnole, le popolane e i mulattieri, eredi dei caratei che guidavano i carri. A completare il corteo intervengono l’indecifrabile Bebè vestito di rosso che sa tutto degli affari degli altri ma nessuno sa nulla dei suoi. È il personaggio più ambiguo, un po’ uomo, un po’ donna e un po’ caprone, grandi orecchie e indefinibili connotati sessuali. Svolge il ruolo di disturbatore, di sovvertitore dell’ordine. Insidia le ragazze, disturba i balli, agita il borsello pieno di monete, simbolo di corruzione. Chiude il corteo l’uomo vestito di nero, il malvagio, il diavolo, forse la personificazione dell’inverno che non si rassegna alla morte imminente.



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