Gli alberi di fuoco


Testo e foto di Paolo Simoncelli

Nel 1799 i francesi marciavano verso Fara Filiorum Petrii con l’intento di saccheggiarla. I faresi erano pronti a contrastare il nemico. In loro soccorso, in località Colle, intercesse Sant’Antonio Abate. Apparve sotto le spoglie di un vecchio, intimando ai francesi di fermarsi. Al rifiuto trasformò le querce della serra in enormi alberi di fuoco. Le fiamme arrivavano al cielo. Terrorizzati, i francesi si diedero alla fuga: la città era salva. Da allora, ogni 16 gennaio, in onore del Santo, giganteschi fasci di canna, le farchie, vengono bruciate nel piazzale della chiesa di S. Antonio Abate. Bruciano al gelo di gennaio i giganteschi “camini”, emettendo fiamme e scintille. La folla intorno grida nel controluce, quasi evocando ancestrali riti di iniziazione. Alcuni assistono allo spettacolo sul muretto del cimitero, altri si muovono tra i monumentali steli alti nove metri, larghi ottanta centimetri, pesanti sette quintali. Un tempo le farchie erano ancora più grandi: alte 12-13 metri, larghe 120-130 centimetri, pesanti una tonnellata. Sono sedici, una per rione. Il giorno della festa vengono trasportate su trattori, alcune a mano col suonatore di trevucette a cavalcioni. I portatori soffrono sotto l’immane fardello. Al suono di fisarmoniche e organetti, le ciclopiche strutture legate con rami di salice rosso procedono verso il piazzale. Per il loro innalzamento servono esperienza e molto ingegno. Sono i capifarchia a dirigere i lavori. Servono scale, corde. E corpi di uomini inarcati che fanno leva coi piedi puntati alle farchie mentre lentamente salgono al cielo. Raggiunta la verticalità, tra canti, balli e fiaschi di vino, le mastodontiche strutture verranno bruciate, al crepuscolo, sprigionando bagliori ancestrali. Il rito rinsalda le radici. Riscalda i cuori. Per la festa arrivano emigrati da ogni angolo del mondo. Tutti alla ricerca dei sacri fuochi che scacciano le tenebre.



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